mercoledì 11 maggio 2011

LA MAFIA SICILIANA

Il fenomeno mafioso è diffuso in molti Stati fra i quali l’Italia; le mafie italiane sono tre: la Camorra  in Campania, la ‘Ndrangheta in Calabria ed infine Cosa Nostra che è particolarmente potente e si è sviluppata in Sicilia; in questo percorso ci occuperemo soprattutto di quest’ultima.
La mafia siciliana è molto antica: essa è nata nel XIX secolo e nel corso degli anni si è sviluppata e radicata all’interno della società.
Il radicamento e la potenza di Cosa Nostra si basano sull’omertà, sulla mancanza di fiducia nello Stato, sulla percezione della debolezza di esso, sulla corruzione, sulla disponibilità di grandi capitali ottenuti grazie ad attività illecite (traffico di sostanze stupefacenti, racket, prostituzione, per esempio), sull’omicidio di chi ostacola le sue attività illegali.
L’omertà è una vera e propria legge, quella del non far rimostranze contro l’offensore, né rivelarne il nome o denunziarne il reato, riserbando la vendetta per sé; l’omertà è la caratteristica più spiccata del comportamento della gente nelle zone di mafia, in particolare in Sicilia. La gente, soprattutto in passato, la praticava per timore della vendetta del mafioso, ma più ancora per una sorta di rispetto di un codice cavalleresco che vietava di far entrare nella contesa gli estranei (carabinieri, giudici, ecc..). Si possono capire, perciò, le grandi difficoltà che i vari pentiti, di cui Buscetta è un esempio, hanno incontrato, decidendo di collaborare con la giustizia, infrangendo, così, la “legge del silenzio” e andando incontro a vendette spietate da parte dei boss mafiosi.

All’inizio la mafia siciliana era una mafia di tipo agricolo, ma col passare degli anni, grazie anche ai contatti con la mafia americana, è divenuta “imprenditrice”, ha accresciuto i suoi capitali, servendosi del traffico di droga e li ha investiti in vari campi, ad esempio nell’imprenditoria, cercando di ottenere appalti convenienti. La mafia, grazie ai suoi mezzi economici, alla sua straordinaria capacità di radicarsi profondamente nel contesto sociale, è riuscita formare un regime di corruzione  fatto di alleanze, favori, trame, assassinii, complotti e soprattutto complicità del potere legale con quello illegale. Grazie alla corruzione essa è riuscita a creare uno Stato dentro lo Stato dove lei stessa è legge.
 
All’inizio, del fenomeno mafioso si negava addirittura l’esistenza stessa; solo a partire dagli anni ’60 / ’70 si è cominciato a considerarlo come un vero e proprio problema della società italiana. In quegli anni cominciò la controffensiva dello Stato verso la mafia, e si iniziò ad indagare.
Molti furono i magistrati (fra questi il giudice Livatino), i prefetti e i carabinieri che cercarono di contrastare questo fenomeno, ma quando divennero degli ostacoli, e soprattutto quando toccarono la mafia nel suo punto debole, il capitale economico, vennero uno dopo l’altro tolti di mezzo.

Solo nel settembre del 1982, dopo la strage di via Carini, in cui persero la vita il generale Dalla Chiesa, prefetto di Palermo, la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta, Domenico Russo, venne approvata dal parlamento la legge con cui Pio la Torre aveva proposto, prima di essere assassinato con il suo autista, leggi speciali contro la mafia. La legge Rognoni-La Torre introdusse nel codice penale il fondamentale articolo 416 bis, che definisce il reato di associazione mafiosa. Nel 1991 il governo varò un’imposta destinata a fondo di solidarietà per le vittime del racket e istituì la D.I.A. (Direzione investigativa antimafia) e la D.N.A. (direzione nazionale antimafia).
La lotta contro la mafia da parte dello Stato fino agli anni novanta è stata ispirata dalla “logica dell’emergenza”: contro tale logica si batterono i giudici Falcone e Borsellino, chiedendo che le leggi fossero sorrette da “una forte e  precisa volontà politica” che si concretizzasse in “strutture adeguate” e “dotate di uomini professionalmente qualificati”, in attenzione costante ai problemi della sicurezza dei magistrati, in un concreto sostegno agli uomini impegnati nella lotta contro la mafia che non può risultare vincente se le indagini non sono frutto di un lavoro di gruppo.
La lotta contro la mafia sembra segnare il passo da quando nel 1997 il Parlamento ha varato la riforma dell’art. 513 del codice di procedura penale che rende quasi impossibile “l’accertamento giudiziale dei fatti di reato e delle relative responsabilità”.
Un ruolo fondamentale nella lotta alla mafia è da attribuire anche ai pentiti, mafiosi che hanno deciso di collaborare con la giustizia e che hanno permesso di individuare la struttura interna dell’organizzazione.

 Il primo tra questi fu l’ex boss di Cosa Nostra, Tommaso Buscetta, che fece importanti dichiarazioni svelando i meccanismi della “cupola”. Inizialmente vi fu da parte dei pentiti una maggior resistenza a parlare con i magistrati: essi non negavano di sapere ma credevano lo stato impreparato a gestire le loro informazioni.
Grazie a queste testimonianze sono state smascherate alleanze clamorose tra mafia e politica e molti uomini di potere furono duramente accusati.
Il caso per eccellenza è sicuramente quello di Giulio Andreotti, accusato nel 1994 di associazione mafiosa e poi scagionato per insufficienza di prove dopo un lungo e articolato processo.
 
Da quando la gente si è decisa ad abbattere l’ancor saldo “muro dell’omertà”, le forze della giustizia sono notevolmente aumentate.
Ma perché il muro sia definitivamente abbattuto è necessaria una maggiore fiducia nelle istituzioni, una più efficace educazione alla legalità e un’opera più incisiva per il miglioramento delle condizioni di vita, di lavoro, d’istruzione soprattutto nelle regioni dove il fenomeno mafioso è più radicato. In sostanza, una maggior presenza dello Stato.
Surdo Federico e Andrea Zacheo

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